Contro la vergognosa sentenza della corte di assise di Palermo

È vergognosa la sentenza della Corte d’Assise di Palermo che ha bollato come “prostituta volontaria” una giovane donna nigeriana di 27 anni che ha denunciato i propri sfruttatori, condannando uno di loro esclusivamente per sfruttamento della prostituzione e favoreggiamento dell’immigrazione, senza tenere in considerazione gli aspetti relativi alla tratta e alla riduzione in schiavitù denunciati dalla giovane. La sentenza manifesta al suo interno tutta la violenza di un giudizio che intreccia livelli di patriarcato, paternalismo e colonialismo inaccettabili e che si basa sulla presunta volontarietà e libertà della donna nella scelta di prostituirsi. 

Il giudice, in un superficiale lavoro di ricostruzione disinteressata della storia della giovane, delegittima la narrazione di quest’ultima, non tenendo in considerazione le potenziali difficoltà cui vanno incontro le persone costrette a rivivere aspetti dolorosi e probabilmente traumatici del proprio vissuto. La ricostruzione appare molto più attenta invece ad indagare il legame degli abusatori con la Black Axe, confermando la fissazione di tribunali (e stampa) sulla cosiddetta mafia nigeriana [1]. 

In un primo momento viene insinuata la possibilità che avrebbe avuto la ragazza di andare via, di “scegliere qualcosa di diverso”. Non viene tenuta in considerazione la posizione di vulnerabilità vissuta dalla ragazza, non in quanto tale, ma in quanto costretta ad un sistema di oppressione. Ci si è chiestǝ se lo stretto legame fra relazioni di potere e genere abbia permesso effettivamente alla ragazza di scegliere per se stessa? Sembrerebbe quasi che chi si è espresso circa i fatti non abbia ben chiaro lo schema della tratta, tantomeno i concetti di violenza di genere e l’intersezione di quest’ultima col costrutto sociale di razza.

Nella sentenza, viene poi fatto un elenco delle possibili alternative che la donna avrebbe potuto intraprendere e che avrebbe avuto la libertà di scartare in quanto “poco remunerativi”, come “far treccine” o la “shampista” o “lavorare presso qualcuno come domestica”, normalizzando il fatto che le donne, e soprattutto le donne straniere, siano quasi sempre assoggettate a ruoli di cura, che siano essi relativi alla cura di altrǝ, alla cura del corpo o degli spazi. Come se le possibilità di autodeterminazione fossero solo quelle determinate da soggetti diversi dalle donne stesse: il livello di sovradeterminazione – anch’esso carattere fondamentale della sentenza cui facciamo riferimento – è un’altra espressione del paternalismo di cui è intrisa la pronuncia.  

Ma il punto centrale, riportato nelle motivazioni della sentenza, è che sicuramente la donna non sarebbe stata vittima di tratta e/o sfruttamento della prostituzione e che si trattava di una sex worker, volendo porre l’accento sulla scelta volontaria di una persona che non ha definito tale la propria scelta e che ha trovato il coraggio per denunciare l’inferno subito. Le motivazioni della sentenza riconfermano la posizione di privilegio di chi ha giudicato, non in grado di comprendere i vari livelli di oppressione operanti sulla medesima persona. 

Ma in che modo possiamo parlare di sex work, quando in Italia lo stesso viene fortemente osteggiato e giudicato? 

La strumentalizzazione che, ancora una volta, viene fatta anche del sex work, ci dice una cosa chiara sulla considerazione da parte delle istituzioni nei confronti delle lavoratrici e dei lavoratori del sesso: non esistono, sono scomodi. Tornano alla ribalta solo quando è più comodo, quando il concetto di sex work serve, strumentalizzandolo e distorcendolo, a mascherare e far passare in secondo piano quello di sfruttamento e di violenza.

Appare evidente, ancora una volta, come il potere coloniale ritenga meritevoli di tutela solo le persone che incarnano al 100% il ruolo della vittima. Oltre a respingere l’orribile concetto di “vittima degna”, esprimendoci qui come attivistǝ e operatrici sociali e legali, vogliamo inoltre sottolineare quanto sia estremamente dannoso e crei a livello socioculturale un allontanamento dall’ottenimento di diritti e tutele per le persone che più ne necessitano, come chi subisce tratta, sfruttamento e violenza.

Questo allontanamento lo tocchiamo con mano ogni giorno e lo vediamo nella quotidianità delle donne che si rivolgono al nostro sportello. Siamo stanchǝ di tutta la violenza, in primis istituzionale e strutturale, che vivono le donne che supportiamo. Una violenza su larga scala, che si propaga nei vari aspetti della vita. 

Siamo stanchǝ di dovere accompagnare le donne che vogliono denunciare, perché spesso non vengono credute. 

Siamo stanchǝ del principio di presunzione di colpa. 

Siamo stanchǝ delle domande violente che vengono poste in sede di Commissione Territoriale. 

Siamo stanche anche noi, di essere trattate come “aiutanti”, mosse da ideali che possono essere messi in discussione a discrezione di chi ci troviamo davanti. 

 

Per approfondire, leggi la puntuale analisi fatta dal Collettivo Ombre Rosse nel loro comunicato.  

 

[1] Il feticcio della mafia nigeriana R. Braude su jacobinitalia https://jacobinitalia.it/il-feticcio-della-mafia-nigeriana/ ; Una prova inverosimile inchiesta su Internazionale https://www.internazionale.it/sommario/1528 

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