Durante lo sgombero della ex-Calcestruzzi, la prima selezione tra le persone “meritevoli” di un’alternativa (comunque inadeguata quanto quella di Fontane D’Oro, vedi sopra) e quelle semplicemente da “rimuovere”, è stata operata in base al possesso o meno di un permesso di soggiorno, come prevedibile. Per chi si trovava “al di là” di questa doppia frontiera immateriale, quella del ghetto e quella dello status giuridico, la soluzione proposta è stata la consueta: decreti di espulsione, trasferimenti in cpr e denunce.
Il messaggio da leggere tra le righe di questo tipo di operazioni è chiaro: finché lo sfruttamento del tuo lavoro (e del tuo corpo) serve, direttamente o meno, a tenere in piedi un sistema economico e produttivo che altrimenti non reggerebbe, non importa avere o non avere in tasca un documento. Quando, invece, le istituzioni hanno bisogno di lanciare un messaggio di presenza e controllo del territorio, quella “irregolarità” diventa il bersaglio da colpire in nome della pubblica sicurezza, e chi la vive, un corpo da deportare, indipendentemente dalla propria storia e dai motivi, personali e di sistema, che ne hanno causato l’irregolarizzazione. Questo è quello che hanno vissuto tre amici, A., K. e B., che nell’arco di 24 ore si sono ritrovati nel mezzo di un blitz delle forze dell’ordine, privati delle casette che avevano costruito e in cui abitavano e trasportati coattivamente al CPR di Milo (TP). Pochi giorni dopo sono stati nuovamente trasferiti presso il CPR di Ponte Galeria (RM), ancora più lontani da quella rete di supporto e di affetti costruita negli anni sul territorio. Lǝ compagnǝ operatorǝ del nostro sportello mobile hanno fatto più del possibile per restare in contatto con loro e per tentare di stabilire un contatto con dellǝ legalǝ di fiducia che potessero tutelare i loro diritti e rappresentare le loro istanze, sia a Milo che dopo, a Ponte Galeria. E hanno condiviso l’angoscia di dover superare gli ostacoli del sequestro dei telefoni cellulari al momento del trattenimento e dell’accesso limitato alle cabine telefoniche dei centri (quando funzionanti), che rendono già il solo accesso alla libertà di comunicazione con l’esterno un fatica estenuante, oltre a mettere a rischio in maniera sistematica l’accesso alla difesa. Dopo tanto lavoro per rappresentare soprattutto la condizione di attuale vulnerabilità di uno di loro, con nostra grande felicità A., K. e B. sono tornati liberi, grazie agli sforzi collettivi messi in campo in collaborazione con lǝ loro legalǝ e sono tornati in Sicilia, come era d’altronde naturale visto che qui si trova il centro dei loro interessi, affetti, amicizie. Non scorderemo mai la rassicurazione di uno di loro, durante una delle chiamate da numero privato che sembravano arrivare da Marte tanto era disturbata la linea, che con forza diceva: “Non ti preoccupare gioia, la Sicilia è la mia casa, quindi certo che torno presto!”.
A fronte della bellezza e della semplicità delle sue rassicurazioni, ci chiediamo cosa sarebbe successo se non fosse andata così. Ci chiediamo il senso di questa interruzione forzata di tre vite lasciate in sospeso per tanti giorni, e la nostra solidarietà va a tutte le persone ancora private della libertà, in CPR o altrove, che magari stanno conducendo la stessa battaglia senza una rete di supporto dall’esterno. Ci chiediamo anche quanto sia costato allo Stato tutto questo, e in quanti modi quelle risorse avrebbero potuto essere messe a frutto per costruire delle alternative in linea con i desideri, le aspirazioni presenti e future e i bisogni delle persone.
La battaglia di A., K., B. per vedersi riconosciuta la possibilità di vivere dove desiderano non finisce con l’uscita dal CPR e continueremo ad affrontarla insieme nei prossimi passi.