Dal mare al carcere: Terracqueo

Primo report trimestrale 2023

All’indomani della strage di Cutro, in cui almeno 93 persone hanno perso la vita, il Governo ha introdotto misure che privano migliaia di persone dei documenti, che restringono ancora di più l’ingresso legale  e che criminalizzano ancora di più i cosiddetti ‘scafisti’. Annunciando questo vortice di clandestinità, morte e incarcerazione, la Presidente del Consiglio ha aggiunto che per il Governo questo:

“Significa non colpire solamente quei trafficanti che noi troviamo sulle barche ma significa colpire anche quei trafficanti che ci sono dietro. […] Noi siamo abituati a un’ Italia che si occupa soprattutto di andare a cercare i migranti attraverso tutto il Mediterraneo. Quello che vuole fare questo governo e andare a cercare gli scafisti lungo tutto il globo terracqueo.”

Con un tocco pomposo che non sarebbe stato fuori luogo nel ventennio, la Presidente Meloni ha introdotto un inasprimento della legge che purtroppo è assolutamente in linea con decenni di politiche di chiusura delle frontiere, attuate da governi di ogni colore politico. Per citare l’esempio più clamoroso, dopo il naufragio del 3 ottobre 2013, lo stato italiano ha dato carta bianca agli organi dell’antimafia per avviare indagini volte a cercare “i trafficanti” su tutte le sponde, indagini che, fra l’altro, sono culminate con l’imbarazzante estradizione di un profugo eritreo dal Sudan che, scambiato per un capo mafioso libico, nulla c’entrava con il traffico transnazionale di persone.

Mentre aspetta di essere coinvolto in altre missioni internazionali di questo stampo, il nostro Paese può sempre continuare “a cercare i migranti”, quali capri espiatori ideali per la morte causata dalle politiche di chiusura delle frontiere. A Cutro non si è verificato niente di diverso. Tutte e tre delle persone vive arrestate in Italia affermano di non essere parte di nessuna organizzazione dedita al traffico di persone, e che lo possono dimostrare, come hanno comunicato ai loro avvocati con cui stiamo collaborando per garantire il diritto ad un equo processo e una difesa effettiva. Tra le persone arrestate uno è curdo, scappato dalla Turchia. Un altro, addirittura, è un minore che ha perso suo cugino nel naufragio, e che ora si trova detenuto in un carcere minorile, in un paese di cui non conosce neanche una parola della lingua. Ancora non ha potuto identificare la salma del suo parente. Oltre a loro, un altro presunto scafista è stato identificato fra le salme, mentre un altro è disperso. L’ultimo è stato fermato in Austria ed è in attesa di estradizione da un mese; nel frattempo, quasi tutti i possibili testimoni sono partiti dall’Italia,  prima che venissero esperiti gli incidenti probatori. Questo è il grande risultato, finora, dell’operazione giuridica e di polizia successiva alla strage.

La serie di esposti presentati ai tribunali di Roma e Crotone, invece, puntano a far luce sulle responsabilità ministeriali e della Guardia Costiera; dalle primissime udienze del processo che vede come imputati i presunti scafisti è già emerso che sono trascorse tre ore fra il naufragio e l’arrivo dei mezzi di soccorso, nonostante la presenza aerea non solo della polizia italiana, ma anche dei dispositivi di Frontex, che monitoravano “il globo terracqueo” dal cielo, con quell’occhio imperiale che tutto vede. Ma li hanno lasciati a morire lo stesso. Una logica perversa, in cui sono sempre le manette ad arrivare prima, e la tutela alla vita umana dopo.

Casi e udienze

La polizia di Stato ha confermato di aver fermato quasi 350 persone come “scafisti e trafficanti” l’anno scorso, dati che coincidono con quelli da noi calcolati in precedenza. E mentre i fermi continuano ad ogni sbarco, le persone arrestate negli anni passati arrivano nelle aule dei tribunali, per essere giudicate. In questo periodo abbiamo assistito a tante udienze di tali processi, che, purtroppo, nella maggior parte dei casi, si sono conclusi con sentenze vergognose.

  • Da 18 mesi seguiamo il processo in primo grado di ‘Lamin’, un giovane ragazzo gambiano che, fin dal momento del suo arresto, afferma di non aver mai guidato una barca nella sua vita: a marzo è stato condannato a 10 anni di reclusione dalla Corte di Assise di Messina.
  • Dinnanzi al Tribunale di Locri, invece, l’ex-magistrato di Kabul, Ahmad Jawad Mosa Zade, è stato condannato a 7 anni di reclusione, nonostante il suo legale avesse fornito importanti prove che dimostrano che è stato costretto a espatriare  a causa del lavoro svolto per la Procura afghana.
  • A Palermo la Corte di Appello non ha avuto il coraggio di riformare in modo significativo la sentenza di condanna a 6 anni 8 mesi emessa dal Tribunale di Agrigento un anno fa nei confronti di Ahmed, del Ciad – limitandosi a ridurre la pena a 5 anni e 5 mesi di reclusione.
  • Sempre a Marzo, il Tribunale di Siracusa ha condannato due cittadini russi, un uomo e una donna, a 4 anni di reclusione. Erano stati arrestati ad Agosto con l’accusa di  aver guidato una barca con 100 persone provenienti da Afghanistan, Iran e Iraq. Anche se queste due persone russe (che si sono sempre dichiarate estranee ai fatti) avessero effettivamente guidato l’imbarcazione, c’è da chiedersi qua come a Cutro: come pensiamo che questi profughi sarebbero potuti arrivare in Italia se non con la facilitazione di questi o di altri skipper? 

Abbiamo anche assistito a delle grandi vittorie. Un uomo camerunense con cui avevamo una corrispondenza epistolare da mesi è finalmente stato assolto e liberato dal Tribunale di Agrigento, dopo quasi un anno in carcere; il suo co-imputato, tuttavia, è stato condannato a 4 anni di reclusione. Ancora più significativo il fatto che 10 persone sono finalmente state assolte da ogni accusa dal Tribunale di Palermo, che ha ritenuto configurabile la scriminante dello stato di necessità, accogliendo in toto la tesi della difesa che dal 2016 sosteneva che molti i suoi assistiti fossero stati costretti a guidare le imbarcazioni dalla Libia all’Italia (gli altri non avevano commesso il fatto). Tra le persone assolte ci sono quattro che fanno parte della nostra comunità qui a Palermo e che abbiamo avuto modo di accompagnare in questo lungo percorso giudiziario, caratterizzato da una serie interminabile di differimenti delle udienze che li ha costretti in un limbo giuridico, non senza conseguenze sulla possibilità di ottenere un permesso di soggiorno.  

Gli esperti dell’antimafia

La rinnovata attenzione politica e mediatica al tema dei cosiddetti scafisti in questo periodo ha rappresentato un’opportunità per ampliare le voci delle persone che sono state criminalizzate, i veri esperti. Fra queste segnaliamo le parole di Buba, Mohamed e Vasilij, in Sicilia intervistati per l’Essenziale; di Timur in Calabria, intervistato da La Stampa; di Ibrahim, video-intervistato per Porta a Porta della Rai; di Diouf, ospite del centro Baobab a Roma, che vorrebbe riaprire il suo processo; e di Bakary intervistato da Valigiablu.

Anche noi siamo stati intervistatx da vari giornalisti, come Giansandro Merli per il manifesto, Simona Buscaglia per La stampa, Rosita Rijtano per lavialibera e Luca Rondi per Altreconomia. Inoltre, sulla scia del naufragio di Cutro e della propaganda del Governo contro i c.d. scafisti, sono stati pubblicati una serie di commenti autorevoli sul tema. Fra questi richiamiamo gli interventi degli avvocati Gian Domenico Caiazza (presidente dell’Unione Camere Penali Italiane, che ha ampiamente citato il nostro lavoro), Gianfranco Schiavone (Asgi), e Cinzia Pecoraro per Io Donna (un’avvocata con un’esperienza importante sul tema).

Inoltre, lo scrittore Roberto Saviano ha dato ampia diffusione alla nostra ricerca militante sulla criminalizzazione dei cosiddetti ‘scafisti’. Ci teniamo però a fare qualche precisazione rispetto alla sua analisi. Cercando indubbiamente di svelare gli sporchi rapporti fra lo Stato italiano e le figure potenti in Libia – e l’orrendo effetto che quest’alleanza ha sulle vite delle persone che cercano di attraversare il Mediterraneo centrale – Saviano, purtroppo, fa confusione fra diverse parole: ‘scafista’ e ‘trafficante’, ‘traffico’ e ‘tratta’, creando nuove e poco utili tipologie quali il “vero scafista” e lo “scafista-trafficante”. Riteniamo importante prestare attenzione nell’utilizzare questi termini, al fine di evitare una confusione semantica che il più delle volte è incentivata in mala fede, allo scopo di spostare  la colpa per le morti alla frontiera lontano dalle responsabilità delle decisioni di politici italiani ed europei, e massimizzare l’impatto criminalizzante della narrazione delle persone migranti. E con un certo successo. 

La morte in mare non finirà né con la caccia agli scafisti, né con nuovi accordi con altri Stati – quali per esempio la Turchia di Erdoğan o la Tunisia di Saïed – per dare la caccia ai trafficanti in “tutto il globo terraqueo”. Non finirebbe nemmeno se per qualche magia i “veri trafficanti”, nei paesi da cui partono le imbarcazioni venissero tutti catturati e sottoposti a punizione esemplare. Perché (come in ogni mercato) finché c’è una forte necessità, qualcun altro si farà avanti per offrire un servizio, facendo ricorso, probabilmente, a mezzi ancora più pericolosi di quelli attuali –  un’evoluzione di cui tracciamo la traiettoria da decenni. La morte in mare e, in generale, ai confini finirà solo quando l’Italia e l’Unione Europea cambieranno le loro politiche sulle frontiere, non solamente con corridori ‘umanitari’, che sono inevitabilmente selettivi, ma permettendo a tuttx di circolare e raggiungere le proprie destinazioni liberamente e in sicurezza, e non solo alle persone con i passaporti più forti.

Una rete dal nord al sud

La campagna per la libertà dei prigionieri politici di questo sistema ingiusto non è una questione meridionale; la criminalizzazione, paradossalmente, non conosce frontiera. In questi mesi abbiamo conosciuto persone in tutta Italia, dal nord al sud, impegnate nella lotta contro il razzismo e il giustizialismo, gruppi con un interesse decennale nella criminalizzazione degli scafisti e il tema del carcere, ma anche persone che si stanno approcciando al tema per la prima volta.

Siamo andatx a Torino per conoscere la storica rete contro i Cpr, luoghi in cui spesso vengono portati i capitani all’uscita dal carcere e  per capire meglio la criminalizzazione di passeur e di attivistx  alle frontiere italo-francesi. Ci siamo confrontatx con centri sociali che lottano per Alfredo Cospito e per l’abolizione del 41bis, e in solidarietà a tutte le persone detenute. Ringraziamo lx militantx dell’Ex Lavatoio occupato di Torino e del collettivo Metamorfosi per averci ospitato, e tutte le persone che sono intervenute nella discussione, specialmente coloro che hanno condiviso coraggiosamente le loro esperienze personali. 

Dall’altro lato della penisola, abbiamo attraversato lo Stretto e percorso la costa Ionica per conoscere meglio le dinamiche di criminalizzazione operate in tutta la Calabria, il lavoro dei difensori e le sfide affrontate dalle persone uscite dal carcere. Durante il nostro viaggio in Calabria abbiamo conosciuto attivistx, avvocatx, operatorx umanitarix e giornalistx impegnatx in tutta la regione; ringraziamo il Collettivo Nuvola Rossa di Villa San Giovanni, i comitati provinciali dell’Arci a Reggio Calabria, Cosenza e Crotone, lx attvistx dell’associazione Antigone, di Nessuno Tocchi Caino, della rete LasciateCIEntrare, dell’ostello Dambe So a Rosarno, del Polo Universitario Penitenziario UniCa, e lx avvocatx dell’Asgi. 

Durante il nostro viaggio in Calabria è emersa una gravissima mancanza di mediazione linguistica, particolarmente evidente quando ostacola il corso dei processi, e di comunicazione cruciale tra avvocatx e assistiti. Un altro elemento critico che ci hanno riferito tuttx è la mancanza pressoché totale di assistenza sanitaria nelle carceri, rimarcata da numerosi e preoccupanti racconti individuali di malasanità. Queste violazioni di diritti fondamentali hanno contributo alla morte di Oleksandr Krasiukov, un cittadino ucraino che è deceduto il 17 febbraio all’interno del carcere di Catanzaro, in seguito ad un’emergenza medica. Oleksandr era stato condannato a 3 anni di reclusione solamente 24 ore dopo il suo arrivo in Italia. E’ morto in un carcere le cui condizioni pessime sono documentate, e in una situazione per cui si stanno ancora compiendo accertamenti. Comunichiamo la nostra solidarietà a sua madre, che è venuta in Italia dopo l’inizio della guerra, anche per essere più vicina a Oleksandr. Lottiamo al suo fianco, per esigere verità e giustizia nei confronti di suo figlio.

‘Dal mare al carcere’
un progetto di Arci Porco Rosso e borderline-europe
11 aprile 2023

[Immagine: Copertina di un quaderno scolastico, periodo fascista.]

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